Auditorium, “Born in the U.S.A”: tris di grandi compositori americani per l’orchestra dell’Accademia S.Cecilia
di SERGIO PRODIGO
Dopo i fasti disneyani di inizio anno, un altro evento si è superbamente compìto e concretato all’Auditorium del Parco della Musica: “Born in The U.S.A.”, eccellente titolazione per il concerto dello scorso sabato (con repliche il 18 e il 19), che ha assurto a protagonisti sia l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Sir Antonio Pappano, sia tre compositori statunitensi, Leonard Bernstein, Samuel Barber e John Adams. Tre diverse espressioni musicali e concezioni compositive di tre (apparenti) diverse generazioni: la proposizione di opere di Barber (il “Concerto” per violino e orchestra op. 14 del 1939, ossia il Novecento storico), di Bernstein (“On the Town: Three dance Episodes” del 1945, ossia il Novecento storicizzato) e di Adams (“Harmonielehre” del 1984, ossia il Novecento contemporaneo) ha potuto (e voluto) rappresentare ed evidenziare i difformi aspetti di una tradizione sinfonica, sovente negletta nelle programmazioni, ma di estremo interesse e di autogena originalità, seppur mutuata o percorsa da mode e tendenze europee.
Le “Tre danze sinfoniche” di Bernstein, ossia la “Suite” dal musical “On the Town”, eseguite in apertura, rivelano certamente la poliedricità del grande direttore e pianista americano (scomparso nel 1990), poiché una naturale versatilità gli consentiva di spaziare e agire fra variegati generi, dal complesso e meditato sinfonismo (si pensi alla “Sinfonia n. 3” “Kaddish” o ai “Chichester Psalmus”) allo stesso musical (“West Side Story”), dai puri brani cameristici (le “Sonate” per violino e per clarinetto e pianoforte) al teatro comico (l’operetta “Candide”). Echi jazzistici si rinvengono a iosa, specie nella prima danza, “The Great Lover”, doviziosa di ampi dispiegamenti sonori di ottoni, ma nella seconda, “Lonely Town”, prevale la soffusa reminiscenza di un nostalgico blues; incisiva ritmicamente e ben supportata armonicamente l’ultima, “Times Square”, a volte chiassosa ma, a tratti, anche sensuale nei virtuosistici assoli dei legni. Magnifica e inappuntabile l’esecuzione della difficoltosa partitura strumentale da parte della compagine ceciliana: la direzione di Pappano le ha conferito forza, vigore e la giusta espressività, senza forzature o sconfinamenti di genere.
Di seguito il “Concerto” di Samuel Barber, interpretato da Gil Shaham, «uno dei più grandi violinisti dei nostri tempi, [che] unisce in sé una tecnica infallibile e un inimitabile calore e generosità», così come poteva leggersi sul prezioso programma di sala. In effetti, l’opera del non prolifico compositore americano, considerato – forse a torto – troppo tributario della tradizione tardoromantica occidentale (specie nei lavori sinfonici ma anche teatrali, come “Antony and Cleopatra”), abbonda di forte intensità declamatoria e di reiterati preziosismi tecnici, soprattutto nel movimento finale. L’“Allegro” iniziale, rigidamente formale nella sua netta giustapposizione bitematica di stampo sonatistico, s’avvale sia di tenui melodicità sia di gagliardia motivica, alternandole e fondendole in equilibrata misura; del tutto lirico ma con tratti rapsodici il susseguente “Andante”, mentre il “Finale” (“Presto in moto perpetuo”) non disdegna arditezze armoniche e cesure ritmiche che tendono a contrastare l’incessante, ostinato e virtuosistico moto del violino solista.
Entusiasmante e perfetta la performance offerta da Gil Shaham ad un pubblico che a lungo lo ha giustamente osannato, invocando il naturale e raffinato “bis”, l’abituale “Gavotte en Rondeau” dalla terza “Partita” in mi maggiore di Bach, splendidamente eseguita.
Nella seconda parte del concerto l’attesa “Harmonielehere” del notissimo compositore contemporaneo John Adams, nato a Worcester nel 1947, pur composta trent’anni fa ma in prima esecuzione assoluta in Italia. Merito indubbio della programmazione l’aver potuto intendere un’opera sinfonica così complessa, densa di significazioni musicali, extramusicali e soprattutto stilistiche: il minimalismo, naturalmente, ossia quel movimento culturale nato proprio in America negli anni Sessanta, quasi per contrasto ovvero opposizione al postserialismo di matrice ed eredità weberniana e ai contenuti estetici delle avanguardie europee. Un’altra sorta di avanguardia, appunto, che si proponeva (e ancora si propone) non tanto il recupero della tradizione tonale (in tal senso più tardi avrebbero operato – e operano tutt’ora – i “neo-romantici”), quanto la semplificazione delle strutture medesime, non più aggrovigliate attorno a sonorità abnormi o massificazioni poliarmoniche o antiarmoniche. Il tonalismo recepito, quindi, come puro mezzo e non come fine ultimo, sovente nobilitato da dotte citazioni o da mirati modelli manieristici e debitamente arricchito da composite e fun-zionali strumentazioni o da sequenze iterative.
Tutto ciò s’è inteso nella “Harmonielehere”, significativamente (se non polemicamente) titolata come il celebre trattato schönberghiano, scritto dal compositore austriaco – è bene rammentarlo – non a difesa e salvaguardia dei princìpi tonali ma solo per la loro comprensione ed evoluzione storica, al fine di superare l’impasse creativo generato dallo stesso tardoromanticismo. S’è inteso, appunto, senza che si possa soltanto con l’audizione comprenderne o spiegarne schemi e costrutti, come d’alro canto si dovrebbe con un’analisi testuale, ma s’è avvertita, tuttavia, una crescente suggestione e un conseguente gradimento da parte degli astanti, anche in grazia di una esecuzione strabiliante. Non appaia calcata o enfatizzata tale aggettivazione: l’Orchestra ceciliana riesce anche a strabiliare, forse perché è sempre in grado di esaltarsi, specie con le partiture più eterogenee e astruse, quando un “grande”, come Pappano, le studia, le assimila e le interpreta da par suo! È logico e consequenziale che l’uragano di applausi, al termine, sia e sia stato entusiasticamente inarrestabile.
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