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Accademia Santa Cecilia, terna di grandi concerti. Di scena la violinista italiana Anna Tifu; il sognante “Valzer” di Glazunov

Accademia Santa Cecilia, terna di grandi concerti. Di scena la violinista italiana Anna Tifu; il sognante “Valzer”  di Glazunov

Di SERGIO PRODIGO
Ci si trova, per caso e necessità, a commentare tre eccellenti manifestazioni concertistiche, svoltesi nell’abituale cornice dell’Auditorium del Parco della Musica e nell’ambito della stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
La prima, risalente a sabato 30 gennaio (con repliche il 1° e il 2 febbraio) vedeva come protagonisti Yuri Temirkanov, alla guida dell’Orchestra dell’Accademia ceciliana (della quale è stato recentemente nominato Direttore onorario), e la giovane e talentuosa violinista italiana Anna Tifu. Il programma prevedeva – nella oculata scia di pregresse terne – tre opere di tre compositori russi del primo, storico e tardo Novecento: Alexandr Glazunov (il “Valzer da concerto n. 2” in fa maggiore op. 51), Dmi-trij Šostakovič (il “Concerto n. 1” in la minore per violino e orchestra op. 77) e Sergej Rachmaninoff (le “Danze sinfoniche” op. 45).

Fascinoso e sognante il “Valzer” di Glazunov, quasi una nostalgica rievocazione della Vienna asburgica, scritto sul finire di quel controverso secolo: più controverso, seppur in diversa ottica estetica, il “Concerto” di Šostakovič, elaborato fra il 1947 e il 1948, si colloca in quel complesso contesto culturale del realismo socialista (dettato dall’onnipotente Ždanov) che imponeva ai compositori la rigida osservanza dei canoni estetici, appunto, sanciti dalla Rivoluzione d’ottobre. Eppure, quel lavoro sfugge mirabilmente a quei condizionamenti e dettami, poiché immerso in una cupa atmosfera notturna e lunare, almeno nel primo e terzo movimento (il “Notturno” e la “Passacaglia”), mentre rude, veemente e quasi brutale si rivela nel secondo (lo “Scherzo”) e, poi, nel finale (la “Burlesque”) mostra i tratti, pur di matrice folklorica, di un’insita e coreografica ritmicità dionisiaca. La difficoltosa e virtuosistica scrittura violinistica ben veniva resa e interpretata dalla leggiadra Tifu, superdotata di strabiliante tecnica, ma efficacemente sorretta dall’inappuntabile compagine orchestrale e dalla vigile direzione del “grande” Temirkanov. Incommensurabile il direttore russo anche nel conclusivo brano di Rachmaninoff, le “Danze sinfoniche”, l’estremo lavoro del compositore, scritto nel 1940, negli ultimi anni del volontario esilio americano, e caratterizzato da una più meditata ricerca espressiva, ben distante dalla retorica dei fasti pianistici: va evidenziata, al riguardo, l’intensità degli applausi e delle ovazioni tributate dal pubblico.


Il secondo evento, svoltosi sabato 6 febbraio (con repliche l’8 e il 9), poneva in ampio risalto ancora la letteratura musicale russa del Novecento (nella sua più ampia accezione), in virtù dell’esecuzione della “Sinfonia n. 1” in re maggiore op. 25 di Sergej Prokof’ev, la celeberrima “Classica”, e della “Sinfonia n. 9” in mi bemolle maggiore op. 70 di Dmitrij Šostakovič, ossia due difformi espressioni di quel sinfonismo, interpretate con esuberante scioltezza e iperdinamico piglio dal giovane direttore spagnolo Pablo Heras-Casado. Nel mezzo due brani beethoveniani, il “Concerto n. 2” in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op. 19 e l’“Ouverture” op. 43 dal balletto “Le creature di Prometeo”: superfluo ogni chiosa sui due celebri lavori, tuttavia rilevante la straordinaria maestria di Emanuel Ax, il famoso pianista polacco, che donava al plaudente pubblico ceciliano una magistrale interpretazione del concerto del “Titano”, contraddistinta da felici intuizioni espressive e da una rara limpidezza del tocco e del fraseggio.

Certamente le due opere russe, eseguite in apertura e in chiusura, non potevano che palesare diversificate concezioni estetiche di un contrastante ‘ambitus’ letterario: da una parte una sorta di rivisitazione della classicità (la “Classica” di Prokof’ev, appunto, composta nel 1917), quasi trasognata se non riflessa da caleidoscopiche sfaccetta-ture, gradevolissime tematicamente e formalmente ineccepibili; dall’altra una idealità classica (la “Nona” di Šostakovič, scritta nel 1945), aliena dai nefasti rigori ždanoviani e satura di lirismo, gaiezza ed esuberanza, quasi l’emblema di un disimpegno da quelle tematiche celebrative, connaturate alle precedenti “sinfonie” (in particolar modo alla “Quinta” e alla “Settima”). Grande il favore e l’accoglienza degli astanti: anche per tale occasione si esprimevano con larghi consensi, tributate al direttore e all’Orchestra dell’Accademia, ma le acclamazioni s’erano già intese, però, al termine della prima parte, per la performance del solista (specie per il “Notturno” chopiniano concesso come “bis”).
Si può, ora, transitare al concerto dello scorso sabato 13 febbraio (replicato il 15 e il 16), interamente dedicato a Mozart: protagonisti l’Orchestra, il Coro di Santa Cecilia e il direttore tedesco Claus Peter Flor, chiamato ‘in extremis’ per il forfait, dovuto a motivi di salute, di Costantinos Carydis; in programma due “Sinfonie”, la n. 25 in sol minore K. 183 e la n. 39 in mi bemolle maggiore K. 543, e una preziosa opera sinfonico-vocale, i “Vesperae solennes de Confessore” in do maggiore per soli, coro e orchestra k. 339.
La prima “sinfonia” mozartiana, composta nel 1773, rappresenta uno dei primi capolavori del genere, fortemente impregnato di haydniane pulsioni preromantiche, ravvisabili nell’incidenza tematica del movimento iniziale (“Allegro con brio”), nel sotteso patetismo del secondo tempo (“Andante”), nella soffusa serenità del “Menuetto” e nella dinamica e contrastiva irrequietezza del “Finale” (“Allegro”).
Di seguito la citata e “liturgica” opera sacra, comprensiva dei cinque Salmi della Vulgata (“Dixit” per quartetto vocale e coro: “Allegro vivace”; “Confitebor” per quartetto e coro: “Allegro”; “Beatus vir” per quartetto e coro: “Allegro vivace”; “Laudate pueri” per coro; “Laudate Dominum” per soprano e coro: Andante ma un poco sostenuto) e del “Magnificat” finale (per quartetto e coro: “Adagio. Allegro”): la “sacralità”, più che la “religiosità” dell’ispirazione musicale mozartiana è sempre peculiare, nel senso che vi possono riscontrare elementi pur legati alla ritualità ma sempre illuministicamente o, meglio, laicamente meditati, vissuti e rappresentati. Così non sorprende che il mirabile fugato del quarto salmo utilizzi il medesimo tematismo che si rinverrà nel “Requiem” o che il concertato finale del “Magnificat” s’avvalga d’una contenuta ma luminosa solennità, ben edificata contrappuntisticamente, che potrebbe rinviare persino al finale della “Jupiter”.

Eccellente s’è rivelata l’esecuzione da parte dell’Orchestra, dell’inappuntabile Coro (sempre magnificamente preparato da Ciro Visco), del pregevole soprano Ana Maria Labin, degli altri tre superbi solisti (il contralto Gabriella Martellacci, il tenore Carlo Putelli e il basso Antonio Vincenzo Serra, preziosi artisti del coro ceciliano) e dell’organista Daniele Rossi, tutti diligentemente diretti da Claus Peter Flor: entusiastico, di conseguenza, il plauso degli astanti.
Nella seconda parte la “Sinfonia n. 39”, ossia la prima dell’ultima triade sinfonica del genio salisburghese: accanto, appunto, alla K. 550 e alla K. 551, costituisce la summa di un genere ormai svincolato dai legami con la tradizione settecentesca e proiettato verso le acquisizioni formali e contenutistiche del beethovenismo maturo. Basti pensare all’intensa e, per talune ricorrenze simboliche, esoterica introduzione (l’“Adagio”), che preannuncia un primo movimento (“Allegro”) dovizioso di spianata cantabilità, di dialettici sviluppi tematici e di reiterate o rituali batterie ternarie, oppu-re all’informale ma strutturalmente complesso “Andante con moto”, sempre ritmica-mente ben scandito. Ugualmente mirabili il “Menuetto” (“Allegretto”) e il “Finale” (“Allegro”): certamente il modello haydniano concorre alla loro fattura, ma il Fattore vi riversa una incomparabile inventiva, sia nei felici tematismi sia nei giochi trasposi-tivi e modulativi.
L’eccellenza dell’Orchestra dell’Accademia s’è confermata anche per l’esecuzione di tale capolavoro e il pubblico ben l’ha intesa e compresa, riservandole l’abituale ovazione.