Parco della Musica, il ciclo delle “Sinfonie” schumanniane con il grande Daniele Gatti
Di SERGIO PRODIGO.Nell’abituale cornice dell’Auditorium del Parco della Musica e sempre nell’ambito della stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia s’è dato inizio al ciclo delle quattro “Sinfonie” di Schumann, dirette da Daniele Gatti e distribuite nel breve e naturale arco di due serie di concerti.
L’iniziale sequenza, già dallo scorso sabato 12 marzo (con repliche il 14 e il 15), ha celebrato, tra l’altro, oltre Schumann e – nel mezzo – un raro Brahms, una sorta di “eroico” e ineludibile ritorno del prestigioso direttore (che già guidò stabilmente l’Orchestra ceciliana dal 1992 al 1997), letteralmente osannato dal pubblico al termine del concerto.
Tuttavia, prima che ci si addentri nella specificità del fascinoso programma (la “prima” e la “terza” delle “Sinfonie” schumanniane, “separate” dalla “Rapsodia” op. 53 di Brahms), si dovrebbe far cenno a due eccellenti e pregresse manifestazioni concertistiche, colpevolmente omesse in queste cronache. Non si potrebbe, in effetti, non rammentare ed esaltare l’esecuzione di uno straordinario “Oedipus Rex” di Stravin-skij, vigorosamente diretto da Sakami Oramo (risalente al 27 febbraio), oppure non magnificare l’ottima performance dell’orchestra, ben diretta da Pietari Inkinen, nella complessa interpretazione (risalente al 5 marzo) della “Nona Sinfonia” di Bruckner: eventi certamente da evidenziare e, per certi versi, da ugualmente celebrare, seppur solo attraverso l’incidentale accenno, poiché hanno raffigurato e configurato due assoluti capolavori del Novecento storico e del Romanticismo tardo, non favoriti per il doveroso commento da inopportune circostanze.
È bene, quindi, dedicare più logico e ampio spazio alle annotazioni e alle postile per il più recente avvenimento “ciclico”, ben inaugurato appunto dalla “Sinfonia n. 1” in si bemolle maggiore op. 38, “La primavera” di Robert Schumann.
Va anzitutto rilevato come il primo lavoro sinfonico del compositore tedesco ponga sempre problemi a livello esecutivo, poiché l’orchestrazione schumanniana appare pur sempre carente tecnicamente, in quanto basata sui modelli beethoveniani e schubertiani (e sugli “amorevoli” consigli di Mendelssohn), frutto di attente letture, ma non supportata da studi specifici in materia (non per nulla Gustav Mahler, forse di-scutibilmente, riorchestrò le sue quattro “Sinfonie”). In tale contesto l’interpretazione deve giocoforza collocarsi di là da una ‘lectio’ rituale e mirare all’analisi tematica e fraseologica, attenuando (ad esempio) ridondanze di ottoni e sfrondando talvolta determinate aggregazioni timbriche, proprio nella complessa e non semplice fase della concertazione, allo scopo di vivificare, anche ritmicamente, i preziosi tematismi, donando o restituendo loro logica e coerenza.
Del resto, l’‘inventio’ motivica è in taluni tratti sublime, pur se non soggiace ai princìpi del bitematismo, poiché la fantasia del compositore tende sovente a prevaricarlo, se non ignorarlo, in favore di una successione episodica (come in gran parte dei suoi eccelsi brani pianistici), anche in grazia e in virtù dei terminali inserimenti di soccorrenti incisi, che assicurano una sorta di continuità ciclica fra i vari tempi della stessa “Sinfonia” (“Andante un poco maestoso”, “Allegro molto vivace” – “Larghetto” – “Scherzo: Molto vivace” – “Allegro animato e grazioso”). Non mancherebbero, comunque, anche al capolavoro schumanniano dei riferimenti di carattere letterario: si presume che la lettura del poema sulla primavera di A. Böttger ne abbia costituito l’ideale ispirazione, palesata dallo stesso compositore nelle titolazioni dei quattro movimenti (“Risveglio della primavera” – I; “Sera” – II; “Allegri compagni di giochi” – III; “L’addio alla primavera” – IV), peraltro omesse nella stampa della partitura.
Certamente, il tematismo e l’apparato armonico risultano sempre di straordinaria bellezza, pur se non sufficientemente supportati a livello timbrico-strumentale, e non celano, in fondo, un’origine o una primigenia concezione “pianistica”, che spesso si traduce nel ricorrente processo (tipicamente schumanniano) dell’autocitazione (non a caso, il tema del Finale è tratto dal celebre inciso della pianistica “Kreisleriana”).
Le considerazioni espresse sulla difficoltà esecutive o interpretative si sono del tutto dissolte o, quanto meno, non si sono per nulla avvertite, poiché Gatti ha reso con incomparabile destrezza e naturale intuizione lo spirito originario della “Sinfonia”, donandole omogeneità timbrica e valorizzandone ogni possibile contenuto espressivo.
Nella seconda parte l’iniziale “Rapsodia” per contralto, coro maschile e orchestra di Johannes Brahms: è un’opera fascinosa, nobilitata dal testo goethiano, che rivela all’ascolto, più che all’analisi, un aspetto quasi inedito della liricità brahmsiana, intimista e quasi meditativa. Certamente la letterarietà ne costituisce il presupposto, di là dalla purezza espressiva del suo linguaggio, tendenzialmente alieno da desultori ammiccamenti a fattori extramusicali oppure condizionato da una qualsivoglia teatralità della rappresentazione; ma il brano si dipana come una naturale sequenza di un discontinuo e articolato recitativo, di un’aria a tratti spiegata e di un finale concertato che esalta, al tempo stesso, la coralità e l’individualità del messaggio celato, ossia l’affermazione dell’universale valore dell’estrinsecazione sonora.
Sublime l’esecuzione, sia da parte della solista, il contralto Sara Mingardo, per la raffinatezza e la soavità di un timbro vocale dai suggestivi toni evocativi, sia da parte del coro maschile, sempre perfetto (in virtù della maestria e della professionalità di Ciro Visco), e dell’inappuntabile compagine orchestrale: tutti, tuttavia, vivificati e fortificati dal gesto e dall’impronta di Gatti.
Tali virtù direttoriali e interpretative hanno potuto trovare ed esprimere massimamente visibilità, vigore ed efficacia nella proposizione della susseguente “Sinfonia n. 3” in mi bemolle maggiore op. 97 di Schumann. L’alto capolavoro sinfonico, eseguito a Düsseldorf nel febbraio del 1851, può agevolmente smentire quelle riserve formulate per l’iniziale “Primavera”, composta solo un decennio prima: basterebbe solo quel tema che ‘ex abrupto’ irrompe sulla scena e che profeticamente quasi preannuncia, nell’arcuato evolversi della stessa triade, il “Preludio” del “Das Rheingold” wagneriano. Mirabile la concezione tematica e strutturale sia del primo movimento, “Lebhaft” (“Vivace”) sia degli altri quattro (“Scherzo”: Sehr mässig – “Molto moderato”; “Nich schnell” – “Non veloce”; “Feierlich” – “Solenne”; “Lebhaft” – “Vivace”), intesi e protesi tutti ad una ricercata fusione e amalgama di elementi classici e di iperromantiche aggregazioni motiviche, sempre sorrette da una timbricità o, meglio, da una funzionale conformazione strumentale, forse non conforme ai canoni mahle-riani ma purtuttavia suggestiva e di forte impatto emotivo.
Ecco, l’emozione, appunto: trasmessa dal fluire della melodia schumanniana e costantemente emanata dalle estrose elaborazioni e dalle cangianti invenzioni armoni-che, ha fortemente soggiogato gli astanti, rapiti, ammaliati ed estasiati. Merito, naturalmente, dell’ineguagliabile Orchestra e dell’eccelso direttore: il pubblico ceciliano li ha gratificati di reboanti acclamazioni e di inestinguibili ovazioni.
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