Parco della Musica, per il ciclo delle “sinfonie” schumanniane Marc Albrecht sostituisce Daniele Gatti
Di SERGIO PRODIGO. Nell’ambito della stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia si è concluso anche il rilevante ciclo delle “Sinfonie” schumanniane, ma con l’inattesa sostituzione di Daniele Gatti, dovuta ad un improvviso e improvvido problema di salute. Come ha spiegato e commentato – prima del concerto – Michele dall’Ongaro, presidente e Sovrintendente dell’Accademia, l’indisposizione del prestigioso direttore italiano ha reso necessario (come, del resto, anche per altre emergenze similari nel corso di questa stagione) l’ausilio amicale di un eccellente interprete, disponibile a dirigere ‘ex abrupto’ l’Orchestra ceciliana senza operare alcuna modifica dei brani programmati. Così Marc Albrecht – che già nel febbraio dello scorso anno aveva diretto la seconda delle “Sinfonie” schumanniane – ha degnamente concluso, sabato 19 marzo (con repliche il 21 e 22) all’Auditorium del Parco della Musica, il distintivo e peculiare ciclo.
Similmente alla prima sequenza, anche nella seconda un raro e prezioso Brahms ha disgiunto o, meglio, coniugato la seconda (appunto) e la quarta di Schumann, in virtù della oculata proposizione del “Canto del destino” (“Schicksalslied”) op. 54 per coro e orchestra.
Inizialmente, tuttavia, si è demandata alla “Sinfonia n. 2” in do maggiore op. 61 di Schumann la rappresentazione o la figurazione di quella sorta di liminalità estetica, ossia il transito dalle intuizioni beethoveniane allo spirito romantico, come autocoscienza della “musica in sé” e della sua intrinseca espressività o soglia intuitiva, così radicata anche nella susseguente concezione brahmsiana. Ma il capolavoro schumanniano, di là dalla connaturata sua valenza e dai contenuti prettamente musicali dei suoi quattro movimenti (“Sostenuto assai” – “Allegro ma non troppo”, “Scherzo: Allegro vivace con Trio I e Trio II”, “Adagio espressivo” e “Allegro molto vivace”), si presta a due considerazioni o riflessioni, l’una di carattere compositivo e l’altra di natura strutturale-programmatica.
In primo luogo, diversamente dalle opere pianistiche, sovente caratterizzate da geniali invenzioni motiviche e ricchi sostegni armonici, nella “Seconda”, terminata dopo una lunga e sofferta elaborazione nell’autunno del 1846 (ed eseguita il 5 novembre dello stesso anno al Gewandhaus di Lipsia con la direzione di Mendelssohn), sembra prevalere una ricerca costante di rapporti e connessioni contrappuntistiche (tra l’altro, proprio in quegli anni Schumann aveva sviscerato a fondo le Cours de contrepoint di Cherubini e analizzato compiutamente l’opera di Bach), che non inficiano la trasparenza delle linee melodiche, anzi ne vivificano una ‘inventio’ di notevole slancio incisivo (si pensi soprattutto alla parte centrale del commovente Adagio espressivo).
In seconda istanza la ciclicità di ricorrenze tematiche (non assimilabile, tuttavia, alle coeve innovazioni lisztiane) si coniuga con lo spirito della citazione (non degli abituali melismi popolari ma di “dotte” reminiscenze), già profuso proprio programmaticamente nella “Fantasia” in do maggiore per pianoforte op. 17, nella quale Schumann dissemina a iosa una pluralità di particelle beethoveniane (una paziente opera di dis-sodamento rivelerebbe appieno il loro significante o un tratteggiato rilievo, legato e connesso strutturalmente forse al desiderio mal represso di proseguire lungo la scia delle ultime cinque “Sonate” del “Titano”). Anche in questa “Sinfonia” (precisamente nella parte conclusiva del quarto movimento) si rinviene simile discendenza beethoveniana: trattasi del tematismo iniziale del sesto “Lied”, tratto dal ciclo “An die ferne Geliebte” (“All’amata lontana”) per voce e pianoforte op. 98, composto da Beethoven nel 1816. Tutto ciò si configura e si concreta in un contesto strumentale che supera o quantomeno vanifica, proprio all’ascolto, i reiterati giudizi o pregiudizi, sovente espressi da analisti e critici di varia tendenza (e già rammentati in pregressi commenti) sulla cosiddetta imperizia di Schumann nella tecnica specifica dell’orchestrazione: invece, quel linguaggio e quella espressività abbisognavano di quella strumentazione, in quanto interconnessa e concatenata a quel processo creativo.
Come per il suo amplissimo repertorio pianistico è sempre necessario un grande interprete, così risulta imprescindibile il medesimo abbinamento per quello sinfonico: l’interpretazione offerta dall’Orchestra dell’Accademia e da Marc Albrecht ha pienamente espresso lo spirito e l’essenza di tale congiunzione, riscuotendo il caloroso consenso del pubblico ceciliano.
Nella seconda parte del concerto il “ponte” brahmsiano dello “Schicksalslied”: s’avverte nella testualità poetica, mutuata dall’“Hyperion oder der Eremit in Grie-chenland” (“Iperione o l’eremita in Grecia”, un romanzo epistolare di Johann Christian Friedrich Hölderlin, pubblicato nel 1799): un’intima ricerca metafisica della continuità e contiguità fra passato (mitico) e presente, che nella trasposizione musicale si traduce, dopo l’ampio esordio tematico e i cupi rintocchi del timpano, nella sottesa dicotomia fra gli iniziali dispiegamenti accordali e motivici di reminiscenza rinascimentale e, quasi a contrasto dialettico, i dissimulati moti dissonanti e gli impasti armonici di settima diminuita nell’ampio contesto dei susseguenti sviluppi. Il tutto poi sfocia nel superbo fugato corale, che gradualmente muta e dissolve l’intrico con-trappuntistico in una fissità omofonica: vi s’afferma, così, la materialità ineluttabile del destino umano, segnata dallo stigma (quasi dissolto) del primigenio tematismo.
Magnifica l’esecuzione della complessa partitura da parte dell’orchestra e la lettura che ne ha offerto Albrecht, ma il coro ha vivificato ancor più la pagina brahmsiana, donandole la giusta intensità drammatica e lo stesso spirito rappresentativo: calorosi gli applausi del pubblico, rivolti in special modo proprio al coro e al suo direttore, Ciro Visco.
Di seguito ancora Schumann e la “Sinfonia n. 4” in re minore op. 120: cronologicamente il brano sinfonico si colloca nello stesso anno (il 1841) in cui venne composta la “Prima”, ma la sua revisione e la stessa riproposizione (risalente al 1853) la enumerano come “Quarta”, posizionandola in un diverso (e più maturo) contesto compositivo. Alla suddetta precisazione consegue e si connette una necessaria considerazione d’ordine strutturale: la stesura originale della “Sinfonia”, peraltro preferita proprio dallo stesso Brahms, si situa nell’ambito formale della “fantasia”, ossia di una configurazione architettonica ciclica, poiché, pur nella difformità elaborativa, si fonda sulla dialettica enunciativa di due principali frammenti motivici, che contrassegnano e condizionano il tematismo dei quattro apparenti movimenti (“Alquanto lento” – “Vivace”, “Romanza: Alquanto lento”, “Scherzo: Vivace – Trio” e “Finale: Lento – Vivace”). Va debitamente osservato, a margine, che due derivate espressioni tematiche – ma livello di incisi – si rinvengono sia in Brahms (il tema della “Romanza” nelle battute iniziali del terzo movimento della “Sinfonia n. 3” in fa maggiore op. 90) sia in Čajkovskij (il tema dello “Scherzo” nell’inciso centrale dell’“Allegro con anima”, dal primo movimento della “Sinfonia n. 5”).
Fra rammenti, rinvii e citazioni la stessa interpretazione del conclusivo capolavoro sinfonico di Schumann s’è rivelata estremamente dinamica, mercé una sostanziale accelerazione ritmica, che se, a tratti, non ne ha a pieno evidenziato – a livello esegetico – lo spirito “fantasioso” e il connubio degli intrecci modulari, ne ha palesato, di contro – ma in puro contesto percettivo –, la vivacità esplicativa e l’estrosità inventiva. Il pubblico ha ampiamente mostrato di apprezzarla, tributando calorosi applausi sia all’inappuntabile Orchestra sia a Marc Albrecht, grati anche per la dedizione e la professionalità profuse.
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