Auditorium del Parco della Musica, Antonio Pappano e la “Sinfonia dei Salmi”
Di SERGIO PRODIGO. V’era grande attesa e palpitante aspettazione per il concerto dell’Orchestra (e dei Cori) dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, tenutosi all’Auditorium del Parco della Musica lo scorso sabato 2 aprile (con repliche il 4 e il 5), poiché il suo direttore e mentore, Sir Antonio Pappano, avrebbe interpretato un particolare e variegato programma, ben articolato, suddiviso e contraddistinto da tre difformi espressioni del sinfonismo: una prima esecuzione assoluta della nuova versione di un’opera contemporanea, “L’Aurora, probabilmente”, scritta da un giovane compositore umbro, Riccardo Panfili, la “Symphonie de Psaumes” di Stravinskij e la “Quinta Sinfonia” di Čajkovskij. Difformità certamente, ma, nello specifico dell’evento che si commenta, i solchi di quella tradizione e, soprattutto, la continuità e la contiguità di un inesausto linguaggio musicale, in grado di autorappresentarsi e di disvelare la relativa e conforme “weltanschauung”, si sono pienamente espresse e manifestate, seppur in una sorta di conformazione “à rebours”.
In effetti, la proposizione iniziale di un lavoro, che rappresenta e raffigura la contemporaneità o (quantomeno) la interpreta, pone non di rado problemi o interrogativi sulla natura del conseguente rapporto: quale prospettiva incarna e prefigura, appunto, una complessa struttura sinfonica come “L’Aurora, probabilmente”? Di là dalla stessa scrittura, estremamente accurata, di là dall’abile strumentazione multitimbrica, che si fonde nel coacervo d’una smisurata orchestra, e di là dallo stesso riferimento ad un aforisma nietzschiano (di carattere politico e filosofico), l’affresco e la significazione che emergono dall’emozionante ed emotivo ascolto dell’opera si condensano e si configurano proprio nella permanenza e persistenza di un linguaggio – sempre sinfonico – che s’è evoluto assieme al tempo, che non rinnega o rigetta il glorioso passato e che tenta di esprimere l’ecletticità del presente. Vi si può ravvisare ogni possibile stile o rimando ad altre espressioni, ma mai tradisce un’autentica originalità e, soprattutto, una ‘vis’ intensiva e coinvolgente.
Il coinvolgimento, appunto: trasmesso agli astanti dall’eccellente performance prodotta sia dall’orchestra, oltremodo impegnata in un’ardua prova esecutiva, sia da Pappano, profondo esegeta di ogni possibile partitura contemporanea, si è mutato in compenetrazione e assimilazione di quel linguaggio, sfociate poi in naturali e prolungati appalusi, tributati agli interpreti e, particolarmente, al valoroso Panfili.
Di seguito, il balzo cancrizzante nel Novecento storico e segnatamente “neoclassico” stravinskijano: dall’orchestra fuoriescono violini e viole, subentrano l’arpa e due pianoforti e il palco s’affolla del grande coro misto dell’Accademia e del folto coro delle voci bianche. Principia, così, quel capolavoro della “profana” musica sacra, la “Sinfonia dei Salmi”, che il compositore russo dedicò “à la gloire de Dieu”, pur se nel lontano 1930 valse a celebrare il cinquantenario della fondazione della Boston Symphony Orchestra.
Descriverla o fornirne una pur sommaria analisi sarebbe d’uopo, ma la messa in musica di tre salmi dividici (il 37, il 39 e il 150 della “Vulgata”), distribuiti in tre difformi e coesi movimenti e dispiegati senza soluzione di continuità, ben è delucidata da uno stralcio del commento che Roman Vlad vi riservò all’interno del suo magnifico libro su Stravinskij: «[…] parliamo di “spirito dell’Antico Testamento” che pervade la “Sinfonia di Salmi”, in cui la musica, prima di assumere il tono di innica fastosità del finale, si fa drammatica invocazione, fervida preghiera, dolorosa interrogazione […]». Null’altro da poter soggiungere, forse, se non una necessaria chiosa proprio sul commovente “Finale”, che consegue all’iniziale “Preludio” e all’intermedia “Doppia fuga” strumentale e vocale: è un canto allelujatico che – sempre con le parole di Vlad – «sembra elevarsi nella estatica contemplazione dei firmamenti stellari».
Affermare soltanto che Pappano l’abbia perfettamente ed esegeticamente interpretato, apparirebbe limitativo o semplicistico: l’ha compenetrato, invece, ne ha appreso, reso, condiviso ed esternato la vera essenza, ossia quella platonica armonia delle sfere che solo il genio dell’uomo traduce nella realtà e nella corporeità dei suoni; merito indubbio della sua capacità di andare oltre l’espressione musicale in sé, ma ampio ri-conoscimento va anche attribuito e riconosciuto all’eccellenza dell’organico strumentale e alla straordinaria prova fornita dai cori. La prolungata messe dei conseguenti applausi ha “glorificato” tutti gli interpreti del capolavoro sinfonico-corale, ma va evidenziata la particolare ovazione riservata a Ciro Visco, l’ineguagliabile direttore dei cori dell’Accademia ceciliana.
Nella seconda parte del concerto si è potuta intendere, nella fattispecie del confronto o del raffronto con altri ascolti o esecuzioni, la riproposizione – sempre temporalmente a ritroso nel percorso storico-sinfonico – di un altro capolavoro, la “Sinfonia n. 5” in mi minore op. 64 di Pëtr Il’ič Čajkovskij, forse la più passionale fra le sei “Sin-fonie” del compositore russo. È l’unica, tra l’altro (insieme alla Quarta, dominata però dalla fatalità e dal destino ineluttabile), che non reca un sottotitolo esplicativo o programmatico (rispetto alla “Prima” – “Sogni d’inverno” -, alla “Seconda” – “Pic-cola Russia” –, alla “Terza” – “Polacca” – e alla “Sesta” – “Patetica”).
La sua unicità è forse legata al quel tema iniziale del primo movimento (“Andante. Allegro con anima”) che, in certo qual senso, condiziona l’intera composizione, riproponendosi negli altri tempi ma non nello spirito o nella concezione delle precedenti strutture cicliche lisztiane. Quel tema, appunto, tende a configurarsi come un “fil rouge”, ossia quel che una volta (ma in altri contesti) si definiva come “tema conduttore”, poiché in tale ambito “conduce” letteralmente la trama musicale, attraverso momenti di diversa intenzionalità espressiva.
Così, nel prosieguo dello stesso movimento iniziale si sviluppa drammaticamente, mutandosi in un veloce e scandito incedere motivico di reminiscenza schumanniana; nel secondo tempo (“Andante can-tabile con alcuna licenza”) si inserisce sia nel mezzo di tematismi elegiaci e appassionati di incomparabile soavità sia nell’inattesa conclusione. Sembrerebbe, di seguito, quasi incompatibile con il melanconico, seppur aggraziato valzer del terzo movimento (“Allegro moderato”): eppure, in coda fugacemente riappare, mascherato e venato di cupa timbricità. Poi esplode nel “Finale” (“Andante maestoso. Allegro vivace”): già nella parte iniziale si presenta nella sua veste “maggiore”, ma, dopo una complessa sezione centrale, caratterizzata da due temi, l’uno accordale e l’altro marziale e, dopo il loro conseguente sviluppo, tronfio e pomposo, si ripropone in una coda, oggetto di poco benevoli commenti da parte di critici coevi e, forse, non pienamente condivisa dallo stesso Čajkovskij (ma il “destino” della sua musica e della sua esistenza si compiva, come nel “Finale” della “Quarta”, anche per meditate e consapevoli scelte estetiche).
Come dianzi accennato, tale proposizione non si sottrae, né può mai sottrarsi, al giudizio del pubblico: s’è concretato entusiasticamente oltre ogni limite, a giudicare dall’intensità e dalla durata degli applausi e delle acclamazioni, forse perché l’orchestra ceciliana, quasi scevra dai pregressi fardelli, s’è potuta esprimere al massimo delle sue enormi potenzialità, vivificata dal gesto geniale e inestinguibile di Antonio Pappano.
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